Che cos’è la realtà? Le cose esistono in
quanto tali o solo perché noi crediamo
che esistano? Sono domande davvero complesse, a cui
non è semplice rispondere.
La risposta che in genere viene più comunemente
data è che è reale ciò che percepiamo
attraverso i nostri sensi. Ma anche in un sogno percepiamo cose attraverso
i nostri sensi, che però non sono effettivamente reali. Questo perché gli
impulsi neurochimici che abbiamo mentre sogniamo, mentre fantastichiamo, o in
stati psicotici o allucinatori sono indistinguibili da quelli che sperimentiamo
quando viviamo davvero questi eventi.
D’altra parte, chi ci assicura che i
sogni non siano reali? Arthur Schopenhauer sosteneva che la vita è sogno e che
davanti ai nostri occhi è posto il “velo di Maya”, che ci impedisce la
conoscenza/percezione della vera realtà, almeno fino a quando non viene
scostato. Così come nel mito della caverna, dove Platone raccontava di uomini
incatenati da tutta la vita in una grotta e che perciò l’unica realtà che erano
in grado di ricevere erano le ombre proiettate dal fuoco sulle pareti: dunque percepivano
gli oggetti in forma bidimensionale, almeno fino al momento in cui venivano
liberati e, usciti dalla grotta, iniziavano a vedere la realtà nelle tre
dimensioni. Forse anche noi siamo prigionieri di una caverna e percepiamo la
realtà in sole tre dimensioni, quando magari ce ne sono di più? La teoria delle
stringhe afferma in effetti qualcosa di molto simile: 10 dimensioni (ma anche
26, nella teoria bosonica).
A questo proposito, Philip K. Dick, autore
che ha fatto della percezione della realtà la tematica di molte sue opere, ha
fornito quella che ritengo sia la migliore definizione che ne sia mai stata
data: “La realtà è quella cosa che,
quando smettiamo di crederci, continua a esistere.”
Ci si potrebbe
richiamare ancora ai filosofi dell’antica Grecia, che ritenevano
che l’uomo vivesse in due mondi distinti: quello interno, soggettivo, fatto di
esperienze, sensazioni e percezioni, e quello esterno, oggettivo, regolato da
leggi fisiche, in cui si trovano i corpi materiali. Il collegamento tra questi
due mondi è realizzato dai sensi, di cui il più importante è la vista, il
tramite tra l’osservatore e la realtà: perché vedere è conoscere. Dunque una cosa è reale perché c’è un osservatore esterno che la sta guardando.
Si tratta del mito del drago.
In Europa come in Asia, ci sono leggende
che parlano di draghi, anche se in modo opposto: creatura
malefica in Europa, simbolo del Diavolo (la Bestia dell’Apocalisse è un drago),
creatura saggia e protettrice in Oriente, simbolo dell’Imperatore della Cina.
Secondo la leggenda, anticamente la Cina
era divisa in tanti piccoli regni. Un giovane condottiero, che aveva in mente
di unificare il paese, quando sconfiggeva un nemico ne annetteva il territorio
e faceva la stessa cosa anche col vessillo, aggiungendo al proprio l'animale
simbolo del regno che conquistava. Quando ebbe terminato questo processo di
unificazione, si ritrovò come stendardo una creatura col muso di cane, le corna
di cervo, il corpo di serpente, le zampe di tigre: il drago (long). Quel condottiero divenne il
primo imperatore della Cina.
Nella tradizione taoista il drago è il guardiano
di tesori nascosti, sorveglia la perla miracolosa che racchiude la saggezza e
la conoscenza; anche nei poemi epici del nord Europa il drago sorveglia un
tesoro. Nell’Edda, Sigurd uccide il
drago e ne mangia il cuore, divenendo così capace di comprendere il linguaggio
degli uccelli, grazie a cui può sapere ciò che fanno e dicono gli uomini, ovvero
ottiene la conoscenza. Un’ulteriore interpretazione è che il tesoro
che il drago sorveglia sia proprio la realtà: ovvero, il drago è l’osservatore esterno
di cui si parlava. La parola drago viene infatti dal greco drakon, correlato al termine dèrkesthai,
che significa “guardare”.
Questi discorsi
hanno in realtà profondi risvolti scientifici: nella meccanica quantistica si
afferma infatti che è l'osservatore a creare
la realtà. Il nostro modo di vedere il mondo è
condizionato dal principio di indeterminazione:
Werner Heisenberg dimostrò che è impossibile conoscere contemporaneamente con
assoluta precisione posizione ed energia di un oggetto in movimento; se nel
mondo macroscopico questo conduce a un errore del tutto trascurabile, nel caso
di una particella come l’elettrone l’errore risulta invece troppo grande. Ciò
pose un serio problema all’elaborazione di un modello atomico fisicamente
coerente, finché Erwin Schrödinger e Paul Dirac non risolsero la cosa in
termini probabilistici: se non è possibile dire con certezza dove si trova l’elettrone
istante per istante, si può invece dire dove
è più probabile che sia. A
livello matematico si crea una funzione (orbitale o funzione d’onda) che lo
localizza in una regione di spazio dove ha un’elevatissima probabilità di trovarsi.
L’elettrone non è più visto come una piccola sfera che si muove lungo un’orbita
predeterminata (come nel modello atomico di Ernest Rutherford), ma
il fatto di visualizzarlo in termini probabilistici lo “sfuma” in una sorta di
nuvola rarefatta: si parla infatti più propriamente di densità elettronica, zone di spazio dove si concentra la presenza
dell’elettrone, quasi come se la particella perdesse la sua consistenza e si
sfumasse in quella regione di spazio a sua disposizione.
Immaginiamo ora di avere uno strumento
che ci indichi con precisione la posizione dell’elettrone. Il processo di
misura riduce la rosa di possibili valori a uno solo. Questo è detto collasso della funzione d’onda. Si passa
da quella sorta di nuvola, che era il modo in cui lo visualizzavamo, a qualcosa
di materialmente concreto. Si potrebbe allora dire che l'osservatore, che sta
compiendo la misura, "materializza" l’elettrone, che è una realtà
fisica concreta, in un certo punto, concentrandolo lì tra tutti i possibili
valori: in un certo senso, crea la realtà.
In un famoso esperimento, Geoffrey
Taylor aveva inviato luce attraverso una barriera con due fenditure per
impressionare una lastra fotografica posta dietro di essa. Ci si aspetterebbe
che i fotoni attraversino le fenditure uno alla volta; invece si
comportano come onde e le attraversano contemporaneamente entrambe, lasciando
sulla lastra figure di diffrazione, tipiche delle onde. Questo perché la luce
ha una doppia natura: corpuscolare (è formata da particelle, i fotoni) e
ondulatoria (si comporta come un’onda). Ma la domanda è: come facevano i fotoni
a “sapere” che c’erano due fenditure?
La conclusione fu che era dovuto all’osservatore,
che influenza le particelle semplicemente essendo presente all’esperimento.
Inoltre la figura di diffrazione non compare se vengono aggiunti apparati di
misura: la natura corpuscolare e ondulatoria della luce non può venire
dimostrata contemporaneamente, cioè il tipo di esperimento determina il
comportamento delle particelle.
Questa è la “interpretazione
di Copenhagen” della meccanica quantistica, che sostiene che anche conoscendo
tutti i dati iniziali è impossibile prevedere il risultato di un esperimento,
poiché l'esperimento stesso influenza il risultato. In questo modo le
osservazioni stesse del fenomeno diventano protagoniste dell'evoluzione
temporale del sistema, tanto che non si può più assumere l'esistenza di una realtà
fisica senza di un osservatore che la misuri. Come recitava una celebre
diatriba ontologica: “Fa rumore un albero
che cade in una foresta deserta? Ovvero: è ancora un suono se non c’è nessuno a
udirlo?”
Per la fisica quantistica la realtà è semplicemente
una serie di incidenti di percorso; Roger Penrose diceva che “La realtà è una cospirazione creata dall'illusione dei sensi.”
Per far capire questa visione,
Schrödinger propose il celebre “paradosso del gatto”. In una scatola è
contenuto un gatto assieme a una fiala di gas tossico; finché non si apre la scatola
non si sa se la fiala si sia rotta e di conseguenza se il gatto sia ancora vivo
o morto; quindi, finché non si apre la scatola, il gatto è contemporaneamente
sia vivo che morto. Il significato di questo paradosso è la coesistenza di due
stati quantistici ugualmente probabili (due realtà, gatto vivo/gatto morto), determinati
dal compiere una misura del sistema (l’apertura della scatola).
Naturalmente il
gatto sarà o vivo o morto, ma finché non si apre la scatola sono vere entrambe
le possibilità e a livello quantistico coesistono; quando poi viene aperta la
scatola, la funzione d'onda probabilistica collassa, in favore di una sola
delle due. Il significato di questo esperimento mentale è dunque mostrare che i
principi della meccanica quantistica portano anche a situazioni teoricamente
paradossali, risolvibili unicamente dall'osservazione diretta del sistema
(l'apertura della scatola), che a quel punto definisce la realtà. Ma la misura
stessa influenza l'esperimento (per esempio, il tempo dopo cui viene aperta la
scatola): allora come si può essere sicuri del risultato dell'esperimento se
questo è condizionato dall’osservatore?
La meccanica quantistica sostiene quindi
che la realtà è la risultante fra
osservatore e osservato, che l’universo
esiste perché c’è un osservatore: è il sistema di credenze dell’osservatore a determinare l’esistenza stessa della
realtà, nella forma in cui egli crede che sia. È dunque l'immaginazione stessa
dell'uomo a dare forma e a definire la realtà condivisa.
Secondo John
Wheeler:
“Non potremmo neanche immaginare un universo che non contenesse degli
osservatori, perché i mattoni stessi dell’universo sono questi atti di
osservazione partecipata”. Il che equivale a dire che se smettessimo tutti
di credere nella realtà, l’universo sparirebbe.
Bisogna dire che molti fisici e filosofi
hanno mosso obiezioni a questa visione, ancora oggi oggetto di discussione. Albert
Einstein, per esempio, controbatteva: “Credete
davvero che la luna non sia lì se non state a guardarla?”
Ho adorato questo articolo ed è un piacere rileggerlo.
RispondiEliminaTuttavia, sostengo che siamo Noi ad abitiare la realtà e che prima o poi, spariremo.
Ciao ^_^
Grazie!
EliminaSì, sostanzialmente i modi di vedere la questione sono due:
1) l'interpretazione di Copenhagen: la realtà non esiste in quanto tale, ma solo in rapporto a degli osservatori che la definiscono
2) obiezione all'interpretazione di C.: la realtà esiste in quanto tale, a prescindere dalla presenza o meno di osservatori.
La diatriba del suono (che ho aggiunto in questa riedizione dell'articolo) ne è un esempio perfetto: il fisico classico ti direbbe che il suono esiste in quanto tale, dato che un suono è semplicemente una perturbazione della pressione locale a seguito della propagazione dell'onda; un fisico quantistico ti direbbe che non esiste, dato che non c'è nessuno a constatarne l'esistenza.
Roba da farsi fumare il cervello!
Ciao! :)
Sto con Einstein :P visione meno romantica, in definitiva, ma anche meno egocentrica :O
RispondiEliminaAnche meno spiazzante!
EliminaChe il risultato di un esperimento cambi se lo osserviamo non mi sorprende, detto in maniera semplice semplice, per vedere un oggetto lo dobbiamo illuminare, ovvero sparare energia e quindi interagiamo.
RispondiEliminaInvece quello che mi lascia stupefatto è il comportamento ondulatorio delle particelle che avendo massa sono un qualcosa di tangibile
Non solo le particelle: tutta la materia ha proprietà ondulatorie. Questa è la teoria di De Broglie: se la luce che è un'onda è costituita da particelle, allora deve valere anche il contrario, cioè che la materia abbia proprietà ondulatorie. Perchè allora il mondo non ci sembra ondulatorio? Perchè la frequenza di oscillazione è talmente ridotta da essere trascurabile. Nel caso di una particella, invece, ha un valore tale da farla comportare come un'onda; allora avvengono alcuni fenomeni validi solo quando i sistemi hanno dimensioni atomiche (effetti quantistici). Per esempio l'effetto tunnel, che spiega come sia possibile la fusione nucleare.
EliminaLa realtà è quella cosa che, quando smettiamo di crederci, continua a esistere.
RispondiEliminaIl fatto è questo se la questione è che la realtà è in "evoluzione" a seconda di chi l'osserva, com'è che tutti noi la osserviamo alla "stessa" maniera? A meno che siamo tutti rappresentazione di sogni.
Non so se sono stata chiara. Questo mondo a me affascina molto, gli esperimenti di cui sopra li ho letti su molti libri, però lasciano stupefatti e aprono le porte ad un mondo fatto di mille possibilità aperte. Siamo pronti ad accoglierle?
^ ^ Marco complimenti per il blog.. solo che io fatico a leggere bianco su sfondo così scuro dopo un po' vedo tutti pallini luminescenti...ahaha sorry... :DDD
"Il fatto è questo se la questione è che la realtà è in "evoluzione" a seconda di chi l'osserva, com'è che tutti noi la osserviamo alla "stessa" maniera?"
EliminaC'è da distinguere bene qui da osservazione e fruizione della realtà. L'osservazione è oggettiva, cioè è in quanto tale, mentre la fruizione è soggettiva, cioè è filtrata dalla propria mappa cognitiva, il modo personale che ha ciascuno di noi di rapportarsi alla realtà. La prima è una questione ontologica, la seconda ricade nella neuropsicologia.
Non so se sono stato chiaro, rimane un discorso estremamente complesso, che va a ricadere su molti ambiti.