martedì 9 giugno 2020

Il Mondo Digitale del Quotidiano

Nel racconto Siamo Tutti Chiara, presente in La Piccola Magia del Quotidiano (che potete trovare qui), la protagonista si ritrova a vivere uno spiacevole momento sul posto di lavoro, qualcosa che è capitato a molti: l'intrusione di altri nella propria vita privata, facilitata da quei cavalli di Troia che sono i social network, che fanno sì che, volenti o nolenti, vengano messe in piazza le nostre vite quotidiane, esponendole all'osservazione e al giudizio altrui. Anche quando questo non è richiesto, né desiderato.

Webeti. Troll. Hater. Cyberbulli. Cyberstalker. Orbiter. Leonigli
Sono tutti neologismi che indicano una serie di comportamenti disfunzionali adottati sul web. Queste figure hanno il più delle volte una caratteristica che le accomuna: l'anonimato. E non solo in senso letterale, come profilo anonimo, ma anche come anonimia di responsabilità. L'invisibilità che si acquisisce in rete fa maturare in loro una presunzione di intoccabilità, di poter fare e dire qualsiasi cosa senza doversene assumere la responsabilità, senza nemmeno subire alcuno stigma sociale per tali comportamenti. Divengono come dei fantasmi: invisibili, impalpabili, infermabili. Ciò viene permesso dalle caratteristiche del mezzo, che fornisce un'identità alternativa a quella fisica, tanto da portare l'individuo a percepire se stesso in rete come un altro: ciò che fa e dice all'interno della realtà digitale è come se non gli appartenesse una volta che ne è fuori. E questa non è che una forma di alienazione, di tipo digitale.
A volte invece l'anonimato, a fronte della palese esternazione della propria reale identità, è garantito dall'agire in gruppo, attuando un tipo di mimetismo che sfrutta l'effetto della diluizione, cioè come fanno alcune specie animali per cacciare o per difendersi dai predatori. In tal modo la responsabilità di atti scorretti sembrerebbe ripartita su più individui, così che quella del singolo ne sia come ridotta o sfumata. Cosa peraltro giuridicamente errata, dato il principio di collusione o corresponsabilità.
Il mondo digitale permette a ciascuno di noi di potersi creare una vera e propria personificazione digitale, che può essere del tutto corrispondente a quella fisica, o averne solo alcuni aspetti, oppure essere del tutto diversa, a partire dalle modalità comportamentali e interattive. E spesso in rete recitiamo, volutamente o inconsapevolmente, un personaggio, che ci siamo costruiti noi stessi o che gli altri utenti ci hanno costruito attorno.
A volte la sua esistenza si regge su delle basi alquanto precarie: il numero di commenti o visualizzazioni all'articolo del blog, di like al post di Facebook, di cuoricini alla foto su Instagram. Ognuno di essi diventa un segno che determina e rimarca l'esistenza della propria personificazione digitale, e più è grande il loro numero, più ci si sente reali all'interno di tale realtà. Perciò una loro scarsità può portare un soggetto emotivamente fragile o impreparato a pensare di aver perso di consistenza in tale realtà, fino a considerarsi inesistente: a sviluppare quindi un'alienazione digitale, convincendosi che la realtà digitale abbia un'importanza e una consistenza maggiore di quella fisica. Il che può avere riflessi negativi sul modo di vivere la realtà fuori della rete, a partire dalle relazioni sociali. 
Il mondo digitale ha una sua effettiva realtà propria, ma è bene tenere sempre a mente che la realtà digitale ha la consistenza e l'importanza che le assegniamo noi: ovvero siamo noi stessi a definire il grado di realtà del mondo digitale in cui agiamo. Che di certo non va sottovalutato, ma nemmeno considerato più vero della vita fuori dalla rete.
Per capire l'origine di tutto ciò, bisogna tornare ai tempi in cui il mondo digitale ancora non esisteva. A seguito del processo di automazione industriale avviato nel secolo scorso è sorta una tematica oggi più che mai attuale, quella della conflittualità uomo/macchina. L'interazione tra uomo e macchina porta a innegabili vantaggi, ma anche a una serie di problematiche.
Le macchine facilitano il lavoro dell'uomo, ma lo possono anche sostituire: ne può conseguire una diminuzione dei posti di lavoro, ma d'altra parte anche la creazione di lavori del tutto nuovi; però nella riconversione, chi era capace nel vecchio, non è detto che sia capace, per età o per plasticità mentale, ad adattarsi al nuovo. Quando si deve imparare qualcosa di nuovo, se non ci si riesce, per esempio perché è qualcosa di troppo complesso o perché mancano le nozioni di base, può generarsi un senso di inadeguatezza, che a seconda dei casi porta allo sconforto o alla rabbia.

Allo scopo di ridurre tale conflittualità, specie per le ultime tecnologie digitali, essendo di più immediato e quotidiano utilizzo, si è cercato di semplificare il più possibile l'interfacciamento alla macchina (cioè di renderla user-friendly). Il che ci ha permesso una migliore interazione, ma probabilmente ci ha portato a sviluppare un adattamento comportamentale verso il mezzo. Diventa necessario adattarsi all'ambiente digitale strutturando adeguati protocolli comportamentali al fine di proteggersi dai possibili pericoli che si possono incontrare in rete, ma anche per primeggiare sui concorrenti (in termini di opinioni o prodotti commerciali, o acquisire e mantenere commentatori/follower), così come per instaurare e mantenere soddisfacenti relazioni sociali.
La nota disfunzionale si ha nella capacità del digitale di trasformare gli individui in interfacce. Le figure citate all'inizio manifestano l'erronea percezione che col loro agire non stanno colpendo individui reali, ma solo una loro manifestazione virtuale, esistente finché la persona è connessa alla rete; di conseguenza che non stiano facendo nulla di male e che non siano perseguibili. È facile vedere l'erroneità di tale pensiero. Per prima cosa oggi si è costantemente connessi alla rete, non c'è più una così netta separazione tra questi due mondi. Le persone sono reali sia fuori dal web che al suo interno, esattamente come lo sono durante una telefonata. Infine, ciò che accade sul web ha inevitabili ripercussioni sulla vita dell'individuo e su tutta la rete di relazioni interpersonali che ha, dentro e fuori il mondo digitale. Pertanto la regola imprescindibile è di ricordare che le persone non sono dei profili: sono persone.

Orbiting è quando qualcuno sparisce dalla vita di una persona (in genere un ex-fidanzato/a), ma continua a tenerla d'occhio (per esempio attraverso i social network), per poi di tanto in tanto riapparire in maniera volutamente ambigua, palesando la propria presenza silente.
Ci sono anche persone che ci conoscono che osservano con attenzione cosa facciamo in rete, segnandosi tutto per poi poterlo utilizzare alla bisogna... ed è questo che capita a Chiara, la protagonista del mio racconto. Questo tipo  di comportamento non ha un nome, ma conoscete la mia passione per l'onomaturgia... Pertanto ho deciso di chiamarlo breathing e breather le persone che lo adottano, in riferimento alla canzone dei Police Every Breath You Take, erroneamente interpretata come un brano d'amore, mentre lo stesso Sting ne diceva: "È una canzone cupa che parla di controllo, gelosia, sorveglianza."


24 commenti:

  1. Me la ricordavo "Every breath you take", prescindendo dal testo una canzone molto orecchiabile.
    Sentirsi in qualche modo come se si avesse un'altra identità in rete è una sensazione che a volte mi capita, però ovviamente mantengo il senso di responsabilità e non mi permetterei di usare questo anonimato virtuale per colpire e offendere altri utenti.
    Mi fa piacere quando qualcuno si interessa ai miei post o ai miei ebook, però cerco di non viverlo come se fosse una prova di successo o di fallimento, il mio punto di riferimento resta sempre la vita vera, non quella virtuale.

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    1. Personalmente penso che tu sia una delle persone più garbate che ci siano nella blogosfera. Ho anche l'impressione che questo corrisponda al te della vita fuori dal web, che non ci sia troppo uno sfasamento e differenza tra Ariano Geta e la persona vera che l'ha creato.

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    2. Beh, in carne e ossa sono meno loquace, la comunicazione mediata tramite messaggi scritti mi aiuta a usare qualche parola in più rispetto a quelle che userei in una conversazione verbale diretta.

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    3. Ariano, non si comunica solo con le parole. Anche il silenzio è estremamente comunicativo. La Scuola di Palo Alto diceva: "Non si può non comunicare".
      Il mezzo scritto però è un grande facilitatore nel permetterci di comporre conversazioni più articolate, perché ci dona qualcosa che spesso nel verbale abbiamo poco: il tempo.

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  2. Possono facilitarne l'utilizzo quanto vogliono, ma io provo sempre ansia quando devo pubblicare qualcosa su un social, quindi evito sempre il più possibile di metterci la faccia, e di concentrarmi solo sul contenuto.
    Provo un senso di paura irrazionale all'idea che la gente guardi il mio profilo Facebook o Instagram alla ricerca di foto o per farsi un giudizio su di me in base a ciò che pubblico e scrivo, ed ecco perché nei social sono quasi "astratto".
    Ed è vero, nei social io quasi mai sono veramente me stesso.

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    1. Sono due livelli diversi. Da una parte c'è la facilità o meno nell'utilizzo del mezzo digitale, dall'altra c'è il costo emotivo che questo comporta, e che si ha ogni volta che ci mettiamo in gioco, fosse anche per intervenire in una discussione dal vivo in un gruppo di amici.
      Il fatto di nascondere la propria identità (nome, volto, collocazione geografica) diventa perciò una modalità di protezione a fronte delle nostre insicurezze, sia legate alla percezione che abbiamo di noi stessi (in particolare se a livello psicologico proviamo un senso di inadeguatezza fisica o sociale), sia al timore del rapportarci con gli altri, dove per stringere un legame è sempre necessario correre un rischio, che però potrebbe non venire ripagato, lasciandoci sconfitti nella nostra emotività.

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  3. Eheh, mi piace la tua definizione legata alla canzone dei Police, canzone di stalking per antonomasia XD
    Io reagisco comunque proprio al contrario: innanzitutto la mia vita virtuale è esattamente in linea con quella reale, tanto che convergono più volte e sono sovrapponibili.
    Poi, qualora ci fosse gente che mi tiene d'occhio (e immagino che qualcuno ci sia, viste certe cose che succedono di tanto in tanto) io mi diverto ancora di più a dire, fare, mostrare (spesso tra le righe) cose... proprio per FARGLIELE SAPERE.
    E ci godo.
    Il modo per far del male ai cyberbulli e categorie analoghe esiste: è proprio distruggere questa loro vita virtuale, farli soffrire qui, sulla rete... vedrai che ne risentiranno anche nella vita reale :)
    Insomma, rigirare in tutto quello che loro vorrebbero fare a noi. Divertente :)

    Moz-

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    1. P.s. è ovvio che anche queste mie frasi apparentemente "dure"... sono messe appositamente, date in pasto a chi potrebbe leggerle ;)

      Moz-

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    2. Tra l'altro erano profili anonimi e agivano in gruppo, quindi le due situazioni descritte messe assieme. A parte il fatto che ogni profilo era in realtà 1 o massimo 2 persone, quindi un livello ulteriore...

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    3. Beh sì, nel tuo blog la Mikypedia ha quasi un intento di diario in forma fotografica, quindi direi che la tua vita digitale è abbastanza rappresentativa della tua vita fuori dalla rete.
      Ciò che mi chiedo è se MikyMoz è Michele Capuano oppure un personaggio che ti sei creato (o che ti hanno creato attorno gli altri). Ovvero quanto c'è in MikyMoz di Michele Capuano? E se il Miky che si diverte con gli amici nella Mikypedia è lo stesso di quello in rete, questi sono te, una parte di te oppure un qualcosa che vivi solo in rapporto con gli altri, e il vero Michele è una persona ulteriore?
      Forse questa potrebbe essere interessante come argomento per un post nel tuo blog. Sarei infatti curioso di sapere cosa ne pensano gli altri amici della rete, soprattutto riferendosi alla loro esperienza.

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    4. Ahaha già che mi chiami Miky con la y... non sono io, perché sono sempre stato Miki (addirittura più di Michele)^^
      Penso di aver trattato giù varie volte l'argomento, sai?
      https://mikimoz.blogspot.com/2017/08/chi-e-mikimoz.html

      Io penso di essere sempre me stesso: ovviamente in rete faccio delle cose che oggettivamente non posso fare dal vivo, e viceversa (esempio: in rete parlo delle mie passioni, anche certe che non condivido con alcun amico reale; nella realtà posso bermi una birra o fare una passeggiata, cosa che non posso fare in rete).
      Sostanzialmente, la mia vera vita è quella che vedi e leggi... ^^

      Moz-

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    5. Ahah, scusa hai ragione: MIKIMOZ! Mi è scappata più volte quella y, mannaggia! 😁
      Non l'avevo letto quel post, ma adesso so un più cose di te. Però lì parlavi più della tua biografia. E anche nel commento sopra: tu parli del fare, non dell'essere. Cioè delle cose che fai, non di come sei.
      A prescindere dalle risposte (e capisco che possa essere anche spiazzante, essendo qualcosa di così personale), mi pare di percepire che ci sia una completa sovrapposizione tra MikiMoz (scritto giusto, stavolta!) e Michele Capuano. Cioè che in rete sei esattamente come sei nella vita fuori dal web.
      Come abbiamo discusso tempo fa in privato, credo che forse per me non sia lo stesso, evidentemente il mezzo digitale mi "frena" in qualche modo, e tendo a mostrare il lato di me che è meno spigliato. Ma questo penso sia dovuto anche al progetto di blogging che uno realizza. Il tuo è legato a fissare i ricordi, il mio invece mi serve come piattaforma di lancio per i miei libri e anche come spunto di lezione (non credere: molti post che scrivo servono anche a me, per fissare idee e approfondire temi che poi utilizzo in aula).
      Come detto, mi piacerebbe che altri blogger dicessero la loro opinione al riguardo.

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    6. Beh, puoi farne un post, no?
      L'argomento è interessante.
      Io, pensa, probabilmente dal vivo sono ancora più senza freni XD

      Moz-

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    7. Il fatto è che le mie impressioni al riguardo le ho già espresse sia nel post che nei commenti, quindi avrei ben poco da aggiungere.
      Mi piacerebbe sentire il parere di altri, però se scrivo io il post me lo commentano in 5, se lo scrivi tu in 50, quindi da te è più interessante.
      Ma è solo un'idea, se hai voglia di utilizzarla, visto che tempo fa chiedevi di suggerirti argomenti di discussione. Poi comunque come riflessione è nata da una serie di impressioni che ci siamo scambiati in questi mesi sia sui blog che in privato.

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  4. A me i social fanno veramente tanta tanta paura. Per quanto mi riguarda incarnano un meccanismo subdolo di controllo di massa che va letteralmente contro natura. Ne faccio uso anche io, ma tento di dosare limitandomi a concetti astratti e generici relativi al mio pensiero e non divulgando mai dettagli sulla mia vita privata. Il racconto mi intriga, lo leggerò in orario serale. Ho avuto anche io un ex fidanzato che mi "spiava" su internet. Ha cercato così tanto il mio nome e cognome su google, che quando furono pubblicate le date delle mie nozze sul sito del comune - da un pezzo è tutto digitalizzato - 5 secondi dopo gli venne finalmente fuori il primo risultato.

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    1. Brutta storia quella del tuo ex. Immagino sia intervenuto in qualche modo, dato che ne sei al corrente. L'orbiting è un comportamento che sta interessando gli psicologi. Sembra che alla base ci sia un ego narcisista, col bisogno di esercitare un controllo sugli altri, incapace di elaborare una separazione o una rottura.

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    2. Eh sì, intervenne, eccome. Telefonate, messaggi, discorsi senza senso sul perché non fossi rimasta con lui ai tempi. Solo alla fine rivelò come aveva appurato del mio prossimo futuro. Un brutto periodo.
      Ho visto che il tuo libro è anche acquistabile in digitale. Lo prendo e lo leggo volentieri. Un modo per conoscersi meglio.

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    3. Allucinante questa storia. Quello poi non sarebbe nemmeno più orbiting, ma è direttamente stalking.
      Diversi anni fa ho conosciuto una ragazza che una sera, tornando a casa, si è ritrovata il suo ex a delirare sul pianerottolo di casa. Da lì aveva preso a girare con un paio di forbici nella borsa.

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  5. È un ambito carico di ambiguità e può generare anche psicosi piuttosto pesanti. C'è un aspetto dei social che in effetti è inquietante. Io li vivo con la massima serenità possibile. Mi serve mostrare quello che so fare con il teatro, per cercare di generare interesse. Credo si percepisca ogni cosa delle persone che incrociamo in rete. Strano ma vero, dalla bacheca fb si capiscono molte cose di una persona, gusti, livello culturale, carattere.

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    1. Forse. Per loro stessa natura i social hanno una certa componente di finzione. Prendiamo Instagram: vengono messe le foto migliori, oppure con filtri, a volte quei momenti spontanei catturati in realtà sono stati progettati ad arte. E' il bias del pavone: dare l'immagine migliore di se stessi. Che però non rispecchia la realtà vera. E' una realtà, ma costruita.
      Allo stesso modo la bacheca di Facebook potrebbe essere stata realizzata ad arte per dare una certa immagine di sè.
      Sono tutte maschere, strati di trucco e cerone che celano la persona vera, e che difficilmente riusciamo a vedere. Però a volte può scattare una dissonanza, l'impressione che qualcosa non torni, e cominciamo a sospettare che le cose non sono come ci appaiono.
      Nei social temo ci sia tanta apparenza e poca consistenza, realtà più costruita che vera. La psicosi di cui parlavi può allora essere di tipo dissociativo. Non fino a creare una seconda personalità, quanto piuttosto una sua frammentazione.
      Perciò penso che vivere i social con serenità o spensieratezza sia poco prudente. E' necessario utilizzarli con grande consapevolezza.
      Anche il tuo essere "guascona". Sai mai che qualcuno possa aversene a male per un comportamento troppo leggero e irridente.

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  6. Sono quello che mostro in rete anch'io. Forse in rete "mi allargo" di più, perché nella vita reale sono timidissima; ho il tempo di meditare risposte che non mi verrebbero così immediate, però non fingo di essere chi non sono. I social bisogna usarli nel modo giusto se no diventano pericolosi nemici: già la privacy è in qualche modo compromessa, ma niente diventa pubblico se non c'è una volontà specifica di farla diventare tale (sempre a meno che non ci sia inganno da parte di altri.)
    Mi guardo dal fare sapere di me certe cose, condivido soltanto ciò che reputo superficiale, innocuo o il risultato della mia attività virtuale. Devo dire che non mi piace provocare/litigare/espormi in rete; non ho esperienza diretta di haters, troll, webeti, anche perché se mi capitassero gli darei pochissimo spazio e zero importanza.
    Dobbiamo convivere con certi strumenti, no? Se siamo maturi e intelligenti il modo giusto lo troviamo. ;)

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    1. Tu usi il tuo nome e cognome veri e metti come immagine la foto reale della tua persona. Questo direi che è abbastanza indicativo del fatto che intendi mostrarti per ciò che sei. Anche se poi in realtà è ciò che scrivi che parla per te, mostrando una persona che non intende costruirsi un'immagine fittizia, bensì si mostra per come è davvero, a partire dalle sue piccole ingenuità.
      Parlando invece di troll e compagnia brutta, magari non ne hai esperienza diretta, ma sul tuo blog in passato ne giravano di quelle figure lì. E mi era spiaciuto dovermene andare via per come avevano inquinato il tuo spazio.

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    2. Davvero? Accidenti, e non me ne sono accorta? Senza dire che mi dispiace che un mio ospite tanto gradito abbia dovuto allontanarsi per questo!

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    3. Guarda, ho sempre pensato che tu sia una delle persone più squisite della blogosfera e mi piaceva molto il tuo blog e lasciare le mie impressioni. Però da certi personaggi è bene prendere le distanze. Io non ho alcun diritto di dirti chi invitare o meno a casa tua, perciò ho preferito andarmene io, senza creare disturbi. Adesso che ho fatto ritorno, almeno mi sembra che quelle persone non vengano più.

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